Inchiostro e Bit
07.10.2019
I dati esistono?
I dati appartengono alla sfera della conoscenza o dell’esistenza?
Articolo di Dario Motta, originariamente pubblicato su Linkedin.
Il valore dei dati risiede nel loro utilizzo
che li trasforma in asset informativi.
Sui dati si possono fare affermazioni oggettive se li si considerano entità documentali e traducibili. E si possono fare anche affermazioni soggettive e dipendenti dall’osservatore, nel caso in cui sia necessaria una elaborazione intelligente che ne assegni un valore.
I dati diventano un asset acquisendone il diritto di utilizzarli per crearne un valore convertibile. Analogalmente al denaro i dati hanno valore se sono condivisibili e scambiabili, sia come unità di misura di un’entità reale, sia come una funzione di stato sociale.
I dati appartengono dunque alla sfera della conoscenza o dell’esistenza? Non è una distinzione da poco, soprattutto in relazione alle implicazioni giuridiche, fondate su leggi che a loro volta riflettono lo stesso problema intellettuale: le leggi esistono, sono reali? Tale questione coinvolge in primis la tutela dell’individuo che è rappresentato dal soggetto giuridico da cui vengono “estratti” i dati e poi trattati. Tali dati sono condizionati sia da fattori quantitativi che da qualità personali e, a seconda di come si intende aggregarli ed utilizzarli, ne può derivare un vantaggio o un danno anche esistenziale. I dati rappresentano il corpo “eterico” del soggetto a cui si riferiscono e altrettanto connessi sia al fruitore finale, sia a chi li ha emanati, avendone presumibilmente diritto legale. Il dato diventa asset informativo in forza di una informazione elaborata e resa accessibile, di un diritto di distribuzione e di un fruitore interessato ad utilizzarlo.
Il fatto che un computer li possa immagazzinare ed elaborare, o un libro li possa conservare ed esporre, è perché quei dati non esistevano prima che fossero sottoposti ad una conversione in un linguaggio convenzionale, assegnando loro un valore arbitrario, attraverso processi di monitoraggio e filtrazione, ed infine cristallizzandoli in una registrazione. Più di qualunque altra causa, la nostra infosfera (e la realtà che ne deriva) prende forma con il processo di registrazione. Prima di essa i dati semplicemente non hanno peso specifico e solo in seguito alla registrazione entrano nello statuto dei pensieri e nella tavola periodica del sapere, sottoforma di informazione. Il “dato” è una percezione sensoriale e nasce quando è pensato dall’osservatore come “dato”, in relazione all’entità che lo rappresenta. Non importa se dal punto di vista epistemico sia disponibile una forma osservabile ed indipendente di quel dato, come un grafico stampato o una tabella.
Il dato ha sempre una valenza ontologica: lo si pensa, gli si crede, lo si condivide, diventa vero e rappresentativo, anche senza essere reale.
Il dato ha una funzione, e per esteso è esso stesso una funzione, derivata da una intenzionalità collettiva o individuale, di acquisire, controllare, manipolare l’informazione contenuta in esso. Il dato, il più delle volte ha la funzione di confermare l’autorità e conservare il potere, tanto quanto il denaro. Quella di assegnare una funzione ad oggetti e persone è facoltà di ogni aggregazione sociale, intelligente e cooperativa, e nel farlo dispone che la maggioranza della comunità condivida quella funzione, per evitare che ogni osservatore ne cambi l’uso a piacimento.
Il dato è funzionale ad una architettura sociale, quanto il mattone lo è per un edificio.
I dati autonomamente non sono funzionali alla società, fino a quando qualcuno non assegna ad essi un calibro sociale, ed è in virtù dei diritti e dei doveri annessi a quello status che si pratica il potere. Ecco perché il controllo delle informazioni, oggi preferibilmente organizzata in dati digitali, è la forma di giurisdizione sociale più ambita. Con essi si può indagare sugli status esistenti o crearne di nuovi, derivati da una assegnazione arbitraria o conforme alle regole. Si possono costruire posizioni armonizzanti o lesive della reputazione di un individuo e di un’intera collettività. Con i dati si possono assegnare e togliere proprietà, libertà, credibilità, ruoli.
I Big Data sono predittivi poiché quantitativamente rilevanti, ovvero rappresentativi di un campione probabilistico che, nel caso di informazioni personali, si riferiscono prevalentemente al consenso sociale, alla mobilità e alla natura delle transazioni commerciali. Si ha così una fotografia della collettività umana, come organo pensante e capace di adottare pensieri di massa. Quando si hanno a disposizione immense quantità di dati indicizzati e correlati, si generano gerarchie di metadati e “neodati“, e non si opera più con un semplice campione di terreno, ma con una intera miniera da cui estrarre ogni tipo di metalli e minerali di valore.
Il dato è vivo.
È un sistema autopoietico, capace come la cellula di un organismo di riprodursi e aggregarsi in tessuti sociali. Il dato digitale è altrettanto vivo se collocato in un sistema di intelligenza artificiale e in essa i processi di apprendimento, seppur inizialmente votati all’imitazione umana, sono contaminati dai neodati, in forme di aggregati imprevedibili e dalla genesi ambigua. Dati, portatori sani di neodati. I neodati possono restare in incubazione per anni tra le fitte maglie digitali e l’umanità ne ignorerà l’esistenza, fino al giorno in cui emergeranno e si fonderanno nell’infosfera che abitiamo.
Quando si asserisce che l’intelligenza artificiale non ha immaginazione, si commette a mio avviso un errore di fondo. L’AI non avrà presumibilmente capacità di immaginazione umana, ma nulla le vieta di processare attraverso una immaginazione artificiale, tra connessioni di neodati, formulati sul “consenso” estratto dai Big Data. Il consenso artificiale potrebbe delineare i modelli sociali del futuro, così come il dissenso artificiale potrebbe applicare una censura alle interazioni umane, non basate su informazioni reali, ma piuttosto sulle simulazioni di dati.
Il dato ha sempre una valenza ontologica: lo si pensa, gli si crede, lo si condivide, diventa vero e rappresentativo, anche senza essere reale.
Il dato è funzionale ad una architettura sociale, quanto il mattone lo è per un edificio.
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